Storie di cantastorie che non invecchiano mai e che mai ci stancheremo di raccontarvi.
Il 4 marzo 1943 Lucio viene al mondo. Con lui e con la madre Jole non c’è nessuno, sono rimasti soli in casa proprio quella sera. In fondo il piccolo Lucio non è poi tanto diverso dal “Gesù bambino” della sua canzone: il babbo – che non è soldato ma “cacciatore di quaglie e di fagiani” – non lo vede nascere. E un tumore non gli darà il tempo di vederlo crescere. La morte del padre è il suo primo incontro con la solitudine, che imparerà ad amare e a rincorrere. “Avevo sette anni… Provai la sensazione struggente di una perdita che mi consentiva di dire a me stesso con pietà e tenerezza: da oggi sei solo come un cane.”
Un bambino strano, che si rifugia in soffitta per starsene ore intere a guardar fuori dalla finestra. A scuola va così male che la madre lo porta in un istituto psicotecnico per un test attitudinale. Il responso? “Signora, suo figlio diventerà un bravo operaio”. Ma Lucio impara a suonare il clarinetto e (alla faccia degli psichiatri) a neanche vent’anni è già un jazzista degno di duettare con Baker, Powell e Mingus. L’esordio come cantante solista (dopo la parentesi dei Flippers) non sarà altrettanto fortunato: al Cantagiro del ’64 il pubblico gli tira letteralmente i pomodori, ma Dalla non si dà per vinto. Capita di vederlo a notte fonda per i bar di via Po, nella sua Bologna, in cerca di qualche spicciolo per ascoltare i suoi pezzi sconosciuti sul jukebox. Insomma, uno che se la canta e se la suona.
Il primo grande successo arriva a Sanremo nel 1971. Una canzone un po’ troppo blasfema per il festival ma che, debitamente censurata, conquista il terzo posto. Proprio quando il Lucio Dalla di 4/3/1943, Piazza Grande e l’album Storie di casa mia sembra essersi cristallizzato in un linguaggio vicino al folk – che sacrifica gli arrangiamenti più complessi per dare rilevanza al testo – nasce la collaborazione con il poeta Roberto Roversi. Un sodalizio artistico naufragato pochi anni dopo, ma che ci lascia in eredità Il giorno aveva cinque teste e Anidride solforosa, gli album più sperimentali (e più politici) di Dalla.
“Dopo Roversi non avrei mai immaginato di poter scrivere testi con altri. Come quando scopi con la Schiffer, a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco. Allora capii che dovevo cominciare a scrivere i testi delle mie canzoni.” Così, dal ’77 in poi Dalla è un autore a tutto tondo. L’unico – sostiene De André in un’intervista del 1981 – in grado di raggiungere l’equilibrio ideale tra musica e testo. Alla maturità artistica appartengono le sue canzoni più amate: il meraviglioso flusso di coscienza che è Com’è profondo il mare, Anna e Marco, Caruso, Disperato erotico stomp, La sera dei Miracoli e L’anno che verrà, che cantiamo aspettando giorni migliori (anche se forse non sarà tre volte Natale e non si farà l’amore “ognuno come gli va”, tra chi ancora rimprovera a Lucio d’essere stato troppo omosessuale, o troppo discretamente omosessuale).
Con il suo zuccotto di lana e “un passato che gli ha lavato l’anima, fino quasi a renderla un po’ sdrucita”, Dalla è in qualche modo un randagio: somiglia al cane che abbaia ad Anna e Marco, ai “gatti che non han padrone” in Piazza Grande. Di certo, padroni non ne ha mai avuti, e chi rimane sconcertato dalla sua stravaganza dimentica che “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”.
Consigli spassionati per appassionati
- Cara, fiabesca, magica e tenera
- Telefonami tra vent’anni, visionaria e futuristica
- Itaca, perché anche la paura, in fondo, mi dà sempre un gusto strano
- Anna e Marco, perché tutti noi siamo stati, una volta, Marco col branco e Anna bello sguardo
- L’anno che verrà, per poter riderci sopra, per continuare a sperare