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Cantastorie – Lucio Dalla, anima un po’ sdrucita

Cantastorie – Lucio Dalla, anima un po’ sdrucita

ritratto del cantante anno 1994

Storie di cantastorie che non invecchiano mai e che mai ci stancheremo di raccontarvi.

Il 4 marzo 1943 Lucio viene al mondo. Con lui e con la madre Jole non c’è nessuno, sono rimasti soli in casa proprio quella sera. In fondo il piccolo Lucio non è poi tanto diverso dal “Gesù bambino” della sua canzone: il babbo – che non è soldato ma “cacciatore di quaglie e di fagiani” – non lo vede nascere. E un tumore non gli darà il tempo di vederlo crescere. La morte del padre è il suo primo incontro con la solitudine, che imparerà ad amare e a rincorrere. “Avevo sette anni… Provai la sensazione struggente di una perdita che mi consentiva di dire a me stesso con pietà e tenerezza: da oggi sei solo come un cane.”

Un bambino strano, che si rifugia in soffitta per starsene ore intere a guardar fuori dalla finestra. A scuola va così male che la madre lo porta in un istituto psicotecnico per un test attitudinale. Il responso? “Signora, suo figlio diventerà un bravo operaio”. Ma Lucio impara a suonare il clarinetto e (alla faccia degli psichiatri) a neanche vent’anni è già un jazzista degno di duettare con Baker, Powell e Mingus. L’esordio come cantante solista (dopo la parentesi dei Flippers) non sarà altrettanto fortunato: al Cantagiro del ’64 il pubblico gli tira letteralmente i pomodori, ma Dalla non si dà per vinto. Capita di vederlo a notte fonda per i bar di via Po, nella sua Bologna, in cerca di qualche spicciolo per ascoltare i suoi pezzi sconosciuti sul jukebox. Insomma, uno che se la canta e se la suona.

Il primo grande successo arriva a Sanremo nel 1971. Una canzone un po’ troppo blasfema per il festival ma che, debitamente censurata, conquista il terzo posto. Proprio quando il Lucio Dalla di 4/3/1943, Piazza Grande e l’album Storie di casa mia sembra essersi cristallizzato in un linguaggio vicino al folk – che sacrifica gli arrangiamenti più complessi per dare rilevanza al testo – nasce la collaborazione con il poeta Roberto Roversi. Un sodalizio artistico naufragato pochi anni dopo, ma che ci lascia in eredità Il giorno aveva cinque teste e Anidride solforosa, gli album più sperimentali (e più politici) di Dalla.

Lucio un po’ sottosopra, anni ’70

“Dopo Roversi non avrei mai immaginato di poter scrivere testi con altri. Come quando scopi con la Schiffer, a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco. Allora capii che dovevo cominciare a scrivere i testi delle mie canzoni.” Così, dal ’77 in poi Dalla è un autore a tutto tondo. L’unico – sostiene De André in un’intervista del 1981 – in grado di raggiungere l’equilibrio ideale tra musica e testo. Alla maturità artistica appartengono le sue canzoni più amate: il meraviglioso flusso di coscienza che è Com’è profondo il mare, Anna e Marco, Caruso, Disperato erotico stomp, La sera dei Miracoli e L’anno che verrà, che cantiamo aspettando giorni migliori (anche se forse non sarà tre volte Natale e non si farà l’amore “ognuno come gli va”, tra chi ancora rimprovera a Lucio d’essere stato troppo omosessuale, o troppo discretamente omosessuale).

Con il suo zuccotto di lana e “un passato che gli ha lavato l’anima, fino quasi a renderla un po’ sdrucita”, Dalla è in qualche modo un randagio: somiglia al cane che abbaia ad Anna e Marco, ai “gatti che non han padrone” in Piazza Grande. Di certo, padroni non ne ha mai avuti, e chi rimane sconcertato dalla sua stravaganza dimentica che “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”.

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