Site icon Bellacanzone

Cantastorie – Luigi Tenco, la disillusione di un sognatore

Cantastorie – Luigi Tenco, la disillusione di un sognatore

Storie di cantastorie che non invecchiano mai e che mai ci stancheremo di raccontarvi.

Sanremo, 26 gennaio 1967. Qualcuno racconta che Tenco era stravolto, ubriaco e imbottito di barbiturici, con “lo sguardo strano di chi è già in un altro mondo”. “Questa è l’ultima volta”, dice a Mike Bongiorno prima di calcare il palco dell’Ariston. Segue un’esibizione discutibile che si potrebbe semplicisticamente imputare a qualche bicchiere di troppo, ma che è probabile fosse frutto di una divergenza con il maestro Reverberi, colpevole di aver snaturato lo spirito originario della canzone con un arrangiamento un po’ troppo sanremese. L’autore non scende a compromessi: canta la sua Ciao amore, ciao, a rischio di sembrare fuori tempo rispetto all’orchestra. Una presa di posizione che gli costa la possibilità di un ripescaggio.

Buffo come quella stessa canzone che si era classificata al dodicesimo posto con 38 voti su 900 venderà 300.000 copie solo nel mese di febbraio, dopo la notizia del suicidio del cantautore (che peraltro non impedirà al festival di proseguire regolarmente). Prima di spararsi un colpo in testa nella sua camera del Savoy, a notte fonda, butta giù qualche riga: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno.” E un “Ciao. Luigi” che scongiura il rischio di qualsiasi retorica.

Persino nella prosaicità di quest’addio scritto in fretta e furia, il cantautore rimane coerente con la propria estetica di un linguaggio anti-poetico, che rifiuta gli artifici tanto cari ai contemporanei della scuola genovese – Endrigo, Lauzi, Paoli – per non scadere nel puro compiacimento formale a discapito del contenuto. “A me piace che le cose vengano dette nel modo meno cauto e meno poetico proprio per non togliere l’irruenza a quello che si sta dicendo: la capacità di colpire, di andare a segno” spiega in un’intervista del 1967 per Sorrisi e Canzoni TV. “A una forma perfetta preferisco l’importanza del contenuto, sia pure male espresso.”

Luigi Tenco a Sanremo, 1967

Tenco canta una verità senza fronzoli, qualche volta non troppo piacevole (nessuno vorrebbe sentirsi dire “mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”). La verità sconsolante di chi insegue il miraggio della città e si ritrova perso tra le luci a “sentirsi nessuno”, di chi inciampa sui propri passi, lasciando che la vita scivoli via, un giorno dopo l’altro, di chi si abbandona fatalisticamente a un sogno d’amore, perché è ormai troppo tardi per mettersi in salvo. Quell’amore su cui “è già stato detto tutto” si svela in Mi sono innamorato di te, Angela, Ho capito che ti amo e tante altre nelle sue vesti quotidiane, spoglio di infiorettature e manierismi, schietto, contraddittorio, egoista e a volte un po’ crudele.

Le navi già salpate, gli amori troppo lontani, le occasioni perdute, i sogni infranti. La disillusione è il leitmotiv più esasperato della poetica tenchiana. “E gli occhi intorno cercano / quell’avvenire che avevano sognato, / ma i sogni sono ancora sogni / e l’avvenire è ormai quasi passato.” Anche la promessa di un domani migliore – “Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà” – ha il tono disincantato di chi spera, ormai, per abitudine. Quando qualcuno gli domandò “Perché scrivi solo cose tristi?”, il cantautore che (forse più di chiunque altro) ha saputo cogliere con lucidità disarmante la condizione esistenziale dell’essere umano, rispose: “Perché quando sono felice esco.”

Consigli spassionati per appassionati