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Cantastorie – Paolo Conte, ladro di stelle e di jazz

Cantastorie – Paolo Conte, ladro di stelle e di jazz

Storie di cantastorie che non invecchiano mai e che mai ci stancheremo di raccontarvi.

Estate 1968. Un motivetto un po’ originale suona dalle radio di tutta Italia. Non una hit estiva da cantare a voce spiegata, ma una strana marcetta che racconta i torridi pomeriggi cittadini di chi ha perso un treno e un amore. È Azzurro, firmata Pallavicini-Conte, e gli italiani continueranno a fischiettarla per i prossimi cinquant’anni.

L’autore? Un ventinovenne di Asti, avvocato con velleità musicali, la passione per il jazz e un pianoforte con cui si accompagna nei timidi tentativi di canticchiare le sue canzoni. Rimarrà confinato al ruolo di autore – confinato, si fa per dire! Scrive per Caterina Caselli, Patty Pravo, Enzo Jannacci, Bruno Lauzi e tanti altri – fino al ’74, quando registra il primo album anche come interprete. Riascoltandosi su nastro, inorridisce: vuole rimborsare la Rca, l’etichetta discografica. E in effetti quello degli esordi non è l’inconfondibile timbro contiano – profondo, rugginoso – ma un tentativo incerto e un po’ stonato che fa pensare al collega Jannacci.

Il programma televisivo Adesso musica ne giustifica bonariamente la voce “esitante” come “un segno della sua timidezza, che lo ha fatto sfuggire alla cinepresa.” L’avvocato Conte è restio anche a esibirsi dal vivo: al suo primo concerto a Sanremo, racconterà sorridendo anni dopo, rovescia una bottiglietta d’acqua sulle prime file. Questa sua indole “un po’ selvatica” (cantava in Genova per noi) fa parte del suo personaggio di cantautore aristocratico. Aristocratico non solo nel nome, nei baffoni rigogliosi e nel sorriso sardonico, ma soprattutto in arte. La sua è una musica colta, ricercata e poliedrica.

Le atmosfere fumose, le armonie, lo swing, lo scat di Via con me e tante altre sono attinti a piene mani dai trascorsi jazzistici del cantautore, innamorato fin da bambino dei dischi americani che i suoi genitori riescono a procurarsi in barba alla polizia fascista. Dopo la guerra fa parte di piccoli complessi jazz astigiani, non solo come pianista: suona anche il trombone e il vibrafono. Forse Conte è rimasto per tutta la vita un “ladro di stelle e di jazz” come lo era allora, a vent’anni.

Al tempo stesso, la sua musica è velatamente francese, per la raffinatezza, l’eleganza, l’intimismo, ma pure per la maniera impressionista che Conte ha di dipingere con le parole, senza mai raccontare, ma lasciando intendere, abbozzando scenari evocativi e vagamente esotici (qualche volta, dalle atmosfere latino-americane). Visioni, brandelli di memoria, schizzi di vita quotidiana – di cui il nostro cantautore aristocratico sa di certo cogliere l’ironia segreta – popolati da personaggi un po’ stravaganti: apparizioni fugaci e dai contorni sfilacciati, che somigliano a ombre cinesi mosse su una cortina di fumo.

Le sue canzoni sono poliglotte non solo musicalmente, ma anche in senso stretto: i testi sono costellati di “importazioni” dall’inglese e dal francese e alcuni (Sarah, Razzmatazz, Los amantes del mambo…) sono scritti integralmente in lingua straniera. Per tutte queste ragioni, un insperato successo internazionale arriva negli anni ’80, nel pieno della maturità creativa del cantautore, che però continuerà a crescere, a sperimentare (anche con l’elettronica), a incidere album e a esibirsi dal vivo. Nel 2018 ha celebrato il cinquantenario di Azzurro con un tour nazionale e quest’anno, tra il 28 e il 30 settembre, uscirà nei cinema il docu-film a lui dedicato: Via con me, di Carlo Verdelli, un omaggio a uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi (e di certo il più charmant).

E pensare che – dai, siamo sinceri! – a quella strana marcetta un po’ buffa e un po’ malinconica non le avremmo dato una lira.

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