I Muse tornano all’Olimpico di Roma per combattere un futuro distopico

I Muse tornano all’Olimpico di Roma per combattere un futuro distopico: tra mostri giganteschi e robot, la band inglese regala uno show spettacolare. Ecco la recensione della data che il gruppo ha fatto nella Città Eterna.

Già dalle prime note di “Algorithm” con cui si apre il concerto dei Muse all’Olimpico di Roma, ti rendi conto del tema dello show a cui stai per assistere.

Uno spettacolo fatto d’immagini, video, luci, laser, enormi mostri tridimensionali, robot che si calano dalla parete dello schermo e tutto quello che è necessario per far vivere a pieno la battaglia che la band inglese vuole combattere sul palco a suon di chitarra, batteria, basso e piano: “We are caged in simulation”. Ed è proprio questo mondo fatto di finzione che i Muse contrastano attraverso il loro show.

La lotta contro la tecnologia, la sensazione che deriva dall’oppressione di un mondo che lascia sempre meno spazio all’essere umano, non sono tematiche nuove per i Muse, spesso influenzati da una visione distopica del futuro in stile “Blade Runner,” ma in quest’ultimo album, Simulation Theory, tutto è ancora più evidente.

Tecnologia, futuro, ma anche universo, tanti sono i riferimenti nella storia dei Muse al tema dello spazio, come nel loro album del 2006 Black Holes and Revelations. Calza a pennello quindi la data del 20 luglio per il loro concerto: il 50esimo anniversario dallo sbarco sulla Luna a cui la band, ovviamente, non può non fare esplicito riferimento visivo.

Tutto il resto si gioca sul palco attraverso uno spettacolo che assomiglia quasi più a un musical che a un concerto per via della scenografia straordinaria e della bravura del “corpo di ballo futuristico” che invade il palco “via terra e via aria”.

La tecnologia c’è e la fa da padrona in vari modi: a cominciare dagli occhiali che indossa Matt da cui il pubblico stesso riesce a vedere quello che lui osserva, passando per i giochi di luce e laser, i video tridimensionali, fino all’apparizione di robot giganteschi.

Difficile decidere se assistere allo show, o se cercare con gli occhi Matt Bellamy mentre canta e suona la sua chitarra spostandosi spesso sulla penisola in mezzo al pubblico, di fronte all’occhio della telecamera che riprende da vicino ogni dettaglio e lo trasmette sul grandissimo schermo. Difficile anche cantare restando dietro ai suoi falsetti, grazie a una voce che è quasi il proseguimento dello strumento che ha in mano.

Ma tutto il pubblico ci prova, sia dal parterre che in piedi dagli spalti e canta a memoria le canzoni dell’ultimo album, ma soprattutto i brani storici come Stockholm syndrome, Hysteria, Time is running out, Starlight, Plug in baby e molte altre che compaiono in scaletta.

Come spesso accade nei film, non manca anche in questo caso il lieto fine. Il gigantesco mostro scheletrico che spunta dal palco gonfiandosi piano piano è sicuramente d’impatto, sovrasta i Muse che continuano a suonare sotto alle sue mani enormi, ma non riesce a vincere: Matt stacca brutalmente la spina di una vecchia console per sconfiggere un mondo simulato e tornare alla realtà.